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Politicizzazione della scienza
In Sardi News 2005, alcune considerazioni sulle dispute scientifichee la loro strumentalizzazione in politica
LA POLITICIZZAZIONE DELLA SCIENZA
 
Negli ultimi anni alcuni temi scientifici importanti, la diffusione degli OGM, il riscaldamento della terra, la produzione di cellule embrionali, hanno esondato dai congressi degli specialisti per invadere il campo di battaglia della politica.
La posizione delle forze politiche italiane al riguardo non appare del tutto chiara. Solo i Verdi esprimono nettamente riserve sul modello occidentale di produzione e consumo e mettono in capo alla civiltà del petrolio molte sgradite conseguenze ambientali. Ma lo scenario appare variegato. Il Ministro di AN Alemanno è contro l’introduzione degli OGM in Italia, mentre l’ex Ministro di centro-sinistra Veronesi è a favore. Il Governatore Soru ha imposto un ripensamento allo sviluppo della energia alternativa “vento”, mentre l’ex Governatore Pili, centro-destra, aveva lasciato le briglie sciolte alla progettazione di campi eolici.
Le divergenze d’opinione nostrane sono specchio di un dibattito mondiale che è in atto. Più che tra partiti politici a me sembra che esista una contrapposizione tra comunità scientifiche. Quella delle discipline che definirò tradizionali, e quella che si richiama alle scienze ambientali.
Gli ecologisti chiedono provvedimenti contro il degrado dell’ambiente. Lo fanno da tempo, giusto quello trascorso dalla scesa in campo di molti dottori con lauree di tema ambientale, figliate da più tradizionali corsi di Ingegneria Mineraria, Chimica, ecc. Conviene ricordare che le lauree con epigrafe “Scienze Ambientali” sono state introdotte a cavallo degli anni 70/80. Gli argomenti a favore delle nuove specializzazioni erano consistenti: la curiosità dell’opinione pubblica per i temi ecologici e la certezza di un aumento di iscrizioni. Vi erano però anche argomenti contro: i nuovi insegnamenti avrebbero levato spazio alle solide discipline dell’ingegneria tradizionale e delle scienze così dette esatte.
Vennero comunque avviati i nuovi corsi ed una fresca generazione di ricercatori iniziò a fare il mestiere per cui era stata preparata: studiare gli effetti dell’interazione tra uomo e ambiente.
Non si può negare che alla base delle scienze ambientali vi sia un assioma: l’uomo è il Problema della Natura, causa prima della suo degrado. La Teoria di Gaia di James Lovelock porta alle estreme conseguenze la immagine negativa dell’umanità: la Terra è un organismo vivente, essa si difende dalle ferite che l’Uomo le infligge. Non a caso, nelle recenti tragedie del terremoto nel Sudest asiatico qualche stravagante commentatore ha creduto di vedere una reazione della Terra alla invasività dell’uomo.
Molti scienziati, chiamiamoli più tradizionalisti, non condividono la teoria che la industrializzazione/urbanizzazione umana sia tale da creare sconvolgimenti permanenti dei cicli naturali.
Diatribe tra comunità scientifiche se ne sono sempre viste, di solito rimangono nell’ambito chiuso dei congressi. Col tempo, gli esperimenti danno ragione alle une o alle altre. I fatti vi salveranno, dice il Vangelo. Ma quella di oggi è la società della informazione! I media hanno colto l’opportunità di fare da megafono ad argomenti di forte presa sulle masse. La politica poi non si è sottratta al gioco ed è intervenuta nel dibattito scientifico puntando a vincere anche cavalcando le legittime preoccupazioni dei cittadini per il proprio futuro.
Ma infine, quali sono gli argomenti della contesa? La scarsità delle risorse, la fine della biodiversità, il riscaldamento del pianeta, ecc. ecc.. E l’Uomo ne sarebbe la causa.
La comunità scientifica ecologista lancia l’allarme, ed in genere chi lancia l’allarme vince. I tranquillizzatori hanno poco seguito.
Un caso emblematico per tutti: la paura che la Terra vada incontro a sconvolgimenti climatici disastrosi sul presupposto che sia in atto il riscaldamento del Pianeta a causa della emissione di CO2, dovuta alla industrializzazione.
Anche a prescindere dalle semplificazioni dei media, vedi Newsweek 30 anni fa in allarme per l’arrivo di una nuova glaciazione, a niente è valso ricordare che il riscaldamento della Terra, se pure vi è stato, a tutt’oggi ammonta a mezzo grado Celsius. Che in Islanda il ghiaccio avanza dal 1970. Che l’Antardide diventa più fredda ed il pack che la ricopre più spesso. Che la terra è coperta per due terzi dalle acque in evaporazione/condensazione continua e che l’H2O surclassa la CO2 nelle proprietà “serra”. Che la misura del riscaldamento del Pianeta cozza con la complessità di un globo non in equilibrio il quale si estende dalle montagne dell’Himalaya alla fossa delle Marianne, dai Poli ghiacciati al caldo Equatore. Che …, che …, che …Niente da fare.
Il riscaldamento del pianeta è un fenomeno dato ormai per scontato, di così generale evidenza da non richiedere più alcuna conferma scientifica. Una trendy truth l’hanno battezzata gli esponenti della comunità scientifica più tradizionalista.
Quindi, se niente è ancora scientificamente inoppugnabile, perché tanta insistenza nel gettare l’allarme su future catastrofi?
Perché esiste l’interesse di una parte, politica e scientifica, nel coltivare la paura della gente comune. La preoccupazione irrazionale delle masse agevola l’approvazione di alcune scelte mirate al contrasto della paura, le quali si riverberano sull’economia, sugli affari, sul potere politico.
Gli indirizzi politici nazionali, europei e mondiali sono ora influenzati dai risultati dei panel tecnici dove sono presenti molti scienziati della comunità che, spero senza offesa e solo per semplificare, a questo punto definisco allarmistica.
Il protocollo di Kyoto, approvato sull’onda delle suddette paure, impone ai paesi industrializzati di portare le emissioni di CO2 al livello del 1990. La legge sui certificati verdi mette i produttori di energia elettrica in un cul de sac. L’uno e l’altra norma impongono investimenti enormi nelle energie alternative e addirittura impianti per l’abbattimento della CO2! Il pagatore finale è il contribuente.
L’Unione Europea è diventata una paladina nella lotta al degrado ambientale.
Non è quindi un caso che la UE promuova ricerche prevalentemente orientate al contrasto degli sconvolgimenti climatici, alla lotta alla desertificazione, alla riduzione delle emissioni di CO2.
Chi potrà beneficiare degli investimenti per la ricerca e per le nuove tecnologie? Coloro i quali credono sia giusto e necessario contrastare le cause antropogeniche, che pure abbiamo visto così poco dimostrate, del degrado ambientale. La grande industria poi, messa in difficoltà per il blocco del nucleare e delle centrali convenzionali, vede con favore gli investimenti pubblici nelle energie alternative e negli impianti di bonifica. E’ l’unica che ha il know-how per realizzarli.
E la comunità scientifica più tradizionalista? Aliena ad ogni fondamentalismo, con poca audience nei media, si esprime attraverso voci isolate. Per di più, alcuni si rassegnano a che i finanziamenti pubblici vadano in una certa direzione e si industriano a farsi “legare dove vuole il padrone”. Premi Nobel un tempo ideatori di nuove tecnologie per il nucleare pacifico, oggi sono paladini dell’energia alternativa, alla ricerca di milioni di dollari di finanziamento pubblico per le proprie ricerche.
Eppure un salto rapido nell’attualità ci dice che si dovrebbero difendere meglio le proprie ragioni: Bill Gates ha lamentato che a livello mondiale ci siano pochi laureati in discipline scientifiche tradizionali, ne soffre lo sviluppo. Forse ci si comincia ad accorgere che si è esagerato in titoli di studio “di tendenza”.
Siamo arrivati al cuore del problema. Molta parte della comunità scientifica ha da perdere o guadagnare a seconda delle diverse scelte dei Governi e non esita a mettere in campo i propri esperti a sostegno. E le proprie posizioni si difendono meglio se l’opinione pubblica è già stata “educata”. Da una parte le masse impaurite, dall’altra la politica che allarma o rassicura per trovare quindi il consenso, e dall’altra ancora gli scienziati e poi le grandi imprese che si prenotano per individuare le risposte e le soluzioni a fronte di generosi finanziamenti. Enfatizzare i rischi a cui si va incontro nelle attività umane, al di là di ogni ragionevole supporto scientifico, fa infine parte della tecnica del confronto spregiudicato. Molti scienziati sono ormai disposti ad adottare tattiche basate sulla demagogia e sulla diffamazione, e ne abbiamo avuto numerosi esempi nel dibattico sugli organismi geneticamente modificati, sul riscaldamento globale, e da ultimo sulla fecondazione assistita. Poiché le battaglie politiche si combattono attraverso la Scienza, le sue tecniche di lotta hanno invaso il campo della ricerca scientifica.
Assistiamo quindi ad una assidua opera di lobbying in favore delle tecnologie definite a basso impatto ambientale. Il nucleare ormai è sconfitto per il terrore, fomentato ad arte, delle scorie radioattive. Il termico convenzionale è sotto schiaffo per le emissioni di gas serra. Lobbying che si serve sempre più dei metodi non scientifici dell’attacco personale, del discredito.
Emblematico il caso di Bjorn Lomborg, uno scienziato ambientalista pentito, come altri. Il suo libro “L’ambientalista scettico” è stato attaccato da un fuoco di sbarramento tendente a screditare lo scienziato ed anche la sua figura morale.
Cosa dice oggi Lomborg? Parole di buon senso. I dollari spesi per iniziative inutili non tornano indietro. In un mondo ideale tutti i problemi potrebbero essere affrontati e risolti assieme. Il guaio è che non viviamo in un mondo ideale. L’umanità soffre per la fame, le malattie, l’acqua inquinata, la mortalità infantile. Ci si deve render conto che le priorità sono diverse dalla lotta al global warming. Alla Conferenza di Copenhagen del 2004, presenti 30 economisti di fama mondiale e tre Nobel, si è trovato il consenso per una proposta di attacco al virus HIV, alla fame nel mondo, alla diffusione della malaria. 800 milioni di esseri umani muoiono di fame. Un miliardo non ha acqua potabile, 860 milioni di adulti sono analfabeti.
Riuscirà l’opinione pubblica occidentale a guardare al futuro del proprio pianeta con maggiore serenità? Riusciranno i contribuenti a quantificare il denaro che gli si chiede di orientare su provvedimenti di poco effetto, e di conseguenza quanto di meno ne resta disponibile per iniziative capaci di salvare milioni di vite?
Si comprenderà che i terremoti, le eruzioni vulcaniche, gli uragani generano sconvolgimenti molto superiori a quelli della industrializzazione? Questa ultima anzi ha consentito di innalzare la qualità della vita in occidente negli ultimi due secoli e si vorrebbe che lo facesse anche in favore del terzo mondo.
Troppo allarme senza prove comincia però ad innescare incredulità.
Michael Crichton, autore di Jurassic Park, nel suo ultimo lavoro, State of Fear, ipotizza che un gruppo di ambientalisti, frustrati per l’impossibilità di dimostrare le proprie previsioni catastrofiche di riscaldamento globale, si industri esso stesso per provocarle con atti terroristici. Utilizzando l’immaginario romanzesco Crichton ha modo di documentare in dettaglio perché il catastrofismo odierno non ha basi scientifiche.
Fiona Harvey del Financial Times, di rientro da un altro degli innumerevoli meeting sul global warming, commenta che i modelli sul riscaldamento della terra assomigliano a quelli degli economisti futurologi, con la differenza che devono considerare un numero spaventosamente più alto di variabili in gioco. Ed hanno altrettanta affidabilità, cioè zero.
Crichton cita Montaigne “Niente viene creduto così ciecamente quanto ciò che è meno noto” e George Will, premio Pulitzer e firma di Newsweek, riporta il suggerimento cardine di un eco-pessimista “Prevedi catastrofi che si verifichino a dieci anni da oggi. Comunque mai meno di cinque. Vicine abbastanza da terrorizzare, ma lontane a sufficienza perché la gente non si ricordi che hai raccontato balle”.
 
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