In duecento anni di storia sarda, il carbone del Sulcis ha avuto un solo grande momento di gloria: era il 1935, il regime fascista annaspava sotto i colpi della “perfida albione” e delle sue sanzioni economiche. Seguirono anni di autarchia, di prodotti nazionali alternativi a quelli di importazione, niente caffè o tè, ma succedanei insipidi. Malgrado lo zolfo, il basso potere calorifico, e le pietre, la Sardegna offriva alla patria la risorsa energetica del proprio sottosuolo.
La fine della guerra gettò l’industria mineraria in una grave crisi. Gli enti pubblici che via via erano obbligati dallo Stato a rilevare le miniere dovevano fare i conti con la bassa produttività, la poca qualità, gli alti costi di estrazione. Se pure negli anni ‘70 ENEL ed ENI erano enti pubblici abituati ad una certa disinvoltura nella spesa, non potevano non vedere che carbone ottimo si acquistava sul mercato internazionale ad un prezzo di meno della metà del costo di estrazione del carbone Sulcis.
Secondo la logica stringente degli enti pubblici di allora, cioè privatizzare i profitti e socializzare le perdite, era lo Stato, cioè le tasse di tutti, che doveva coprire i gli oneri aggiuntivi.
Ed infatti in diciotto anni i contribuenti hanno pagato 850 miliardi per riaprire le miniere. Ancora però nel 1993 non erano serviti ad estrarre un solo chilo di carbone. Non solo, l’ENI metteva in liquidazione la Carbosulcis, in altre parole dichiarava il fallimento della intrapresa economica.
Nel 1994 le proteste dei 950 minatori in cassa integrazione convincono il governo ad emanare un Decreto che decide per l’ennesima volta la riapertura delle miniere. La sensibilità ambientale però non tollera più che si bruci un carbone ad alto zolfo. Che fare? Un gassificatore per trasformare il carbone in gas pulito ed una centrale elettrica per produrre chilowattora.
Che fare dei kWh? In una economia di mercato ogni consumatore dovrebbe poter comprare il prodotto a più basso prezzo. Non è detto che l’energia elettrica della filiera gassificatore/centrale sia il prodotto più economico, ed infatti non lo è. L’elettricità del Sulcis ha un prezzo di 160 lire a kWh, quando il costo medio di produzione dell’ENEL è di sole 72 lire. Un Decreto Presidenziale obbliga quindi l’ENEL a comperare per otto anni il kWh Sulcis a quel prezzo fuori mercato. L’ENEL, costretta dalla legge ad un commercio in perdita, subirà un onere che ribalterà come sovraprezzo termico sui piccoli consumatori italiani, gli unici vincolati a fornirsi dall’ENEL, in accordo alle recenti direttive sulla privatizzazione dell’Ente elettrico. Sono ancora i contribuenti italiani a dover pagare. Quanto? Non si sa, 2000 - 2500 miliardi tra gassificatore, centrale e sovrapprezzo termico.
Malgrado la possibilità di riscuotere questa lucrosa bolletta, l’asta internazionale indetta per avviare la attività di estrazione e gassificazione è andata deserta. Segno che, malgrado gli incentivi, esistono problemi tutt’altro che risolti. Si parla di costi di estrazione vicini alle 400000 lire a tonnellata, quando il prezzo del carbone di qualità ricevuto via mare alle centrali è di 80000 lire. Si ricorda che l’ENEL non vuole ritirare anche le poche migliaia di tonnellate che giacciono nei piazzali, perché di troppo modesta qualità.
Si è quindi passati dall’asta ad una offerta privata ed un vincitore è stato finalmente trovato: una eterogenea cordata di imprese e consulenti, guidata dall’Ansaldo.
Chi in questi anni ha spinto per la ripresa del bacino carbonifero non nega i dati negativi economici e tecnici che –finito il fascismo nel ‘45- hanno posto fuori mercato il carbone sardo, ma lo valorizza come risorsa strategica “in situ” per la Sardegna, garantisce che il gassificatore ridurrà il temuto impatto ambientale e non dimentica infine di sottolineare la solidarietà implicita in una iniziativa che salvaguarda 950 posti di lavoro.
Ma è vero che oggi il carbone sia da considerarsi una risorsa strategica?
La vera risorsa strategica del futuro secolo è il capitale umano, le conoscenze avanzate ed il dominio delle nuove tecnologie. Chi conosce, produce e controlla scienza e tecnica ha in mano l’economia, gli strumenti del governo, il benessere ed è padrone del proprio futuro. Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Francia e Germania insegnano. Sud America, Africa, Russia e Cina ricchissime di materie prime (e carbone) sono ancora in ritardo di sviluppo perché in ritardo di Tecnologia e Scienza.
Il carbone, al contrario del petrolio, si trova sotto ogni latitudine ed a prezzi molto più competitivi di quello del Sulcis. Carbone di ottima qualità si coltiva in paesi di antica democrazia o totalitari. Non esiste un controllo geopolitico del minerale.
E l’impatto ambientale? Si portano ad esempio gli impianti del Texas, isolati vicino alle miniere in una regione dalle sconfinate praterie vuote, mentre nel Sulcis il gassificatore si vuole installarlo vicino all’abitato di Paringianu in una zona ad altissima densità di ciminiere, già considerata ad alto rischio ambientale, scatenando la rivolta della popolazione.
Non esiste poi alcuna garanzia che una tecnologia complessa, magari ben esercita all’estero in un paese ad alta tecnologia, possa essere trapiantata con le stesse sicurezze in una regione che non ha personale specializzato, tutto da formare, non ha tradizione nella gassificazione, non ha laboratori ed istituti di ricerca in loco in grado di operare come infrastruttura di supporto. Anzi, ingenuamente si spera che il gassificatore attragga ricerca di qualità nel Sulcis. Di tutto ha bisogno il Sulcis meno che dallo studio dello sfruttamento del proprio sottosuolo altri possano imparare a salvaguardare il loro.
In Sardegna abbiamo già visto fallimenti di molto vantate tecniche innovative di importazione. L’inceneritore di Macomer ed il suo “letto fluido” non ha insegnato nulla. Chi ha dei dubbi si avvicini alla plaga puteolente che è diventata l’area su cui insiste l’impianto.
Eppure, era ben altro quello che gli amministratori regionali ed i loro interessati consiglieri avevano visto in Giappone.
La verità è che ogni tecnologia acquistata chiavi in mano ha bisogno di competenze e di capitale umano che gli si deve costruire attorno.
Si dice che la Sardegna ha un problema energetico. Sì, di sovraproduzione.
Per le iniziative ENEL e Saras del passato nei prossimi quattro anni la Sardegna avrà, anche senza il gassificatore, 2800 megawatt installati con un fabbisogno di consumi interni appena pari alla metà: 1400 megawatt. Che ne faremo dell’energia in più, la venderemo? No, perché l’elettrodotto con la Toscana non la può trasportare se non in minima parte e con perdite. Soltanto le industrie voraci di energia potrebbero avvantaggiarsene, quelle che trasformano la materia prima in manufatti, cioè le petrolchimiche od altre industrie della chimica primaria. Dove sono le nuove aziende se anche molte delle vecchie dismettono (vedi ENI Risorse) e soprattutto è questo il modello di sviluppo che i sardi vogliono?
Il paesaggio lunare vicino a Iglesias, l’inferno di Genna Luas, le decine di ciminiere di Porto Scuso e Porto Vesme, i cumuli di polveri tossiche agitate dal vento, l’aria giallastra malgrado il forte maestrale sono il paradigma di cosa significhi lo sfruttamento selvaggio del territorio. Vorremmo poterne parlare al passato, solo come testimonianza dell’antica fatica dei sardi per combattere la povertà. La zona per essere risanata richiede oggi un investimento intorno ai mille miliardi.
Rimane il dovere della solidarietà. Una solidarietà che paradossalmente si sarebbe potuta realizzare con molta maggiore soddisfazione dei minatori, con molto minor dispendio per la collettività ed impatto ambientale nullo.
Non è in discussione il dramma della disoccupazione. In discussione è il modello di sviluppo che da anni viene proposto ed imposto ai sardi e alla Sardegna. Un’isola che pare non possa far altro che pietire un lavoro in miniera per i padri, i figli e magari i nipoti.
Cosa rimarrà della corsa alla gassificazione? Un mucchio di buste paga, fino a nuovo ordine e tanta polvere e fumo.
A questo futuro i politici, che sulla indigenza del Sulcis hanno fondato le loro carriere, vogliono ancorare per decenni i destini della popolazione di quella zona.
Perché non investire nel miglioramento di un sistema scolastico che cade a pezzi, in computer, internet e in laboratori?
Perché non riavviare lo sviluppo del made in Sardinia, applicare un marketing più aggressivo, imparare il commercio elettronico, acquisire una dimensione più internazionale?
Perché non rilanciare l’industria dell’accoglienza in cui i sardi metterebbero a frutto la loro vocazione all’ospitalità? La Sardegna ha angoli bellissimi poco visitati, in un’epoca in cui la bellezza è la cosa più ricercata e pagata.
Si tratta di iniziative tutte a basso consumo energetico.
Gli stessi minatori potrebbero pensare ad un avvenire diverso e più luminoso per i loro figli, tenuti finalmente lontani dalle gallerie.
Ma è solo un sogno di primavera.